Melodie del movimento – Musicoterapia
Interessante esperienza di musicoterapia di un gruppo di malati di Parkinson.
Interessante esperienza di musicoterapia di un gruppo di malati di Parkinson.
Mi vengono in mente alcune parole dette da un malato di P. in uno degli incontri che si sono tenuti l’anno scorso sul tema della comunicazione; erano più o meno queste: “ho ritrovato la gioia guardando gli occhi carichi di felicità del mio nipotino che ha trasformato in un gioco il mio tremolio di parkinsoniano … ride, ride tanto ed io insieme a lui …”. Ci sono giochi come “trotta trotta cavallino…cavallino arrì arrò ..” ed altri che sono vecchi quanto il mondo ma sempre attuali e preferiti dai bambini. I piccoli amano farsi “dondolare” sulle ginocchia rassicuranti di un adulto. Già, rassicuranti! Perché il tremolio tipico del P. non significa che non si è più in grado di prendere sulle ginocchia il proprio nipotino e insieme divertirsi in un continuo scambio di sguardi e sorrisi avvolgenti capaci di procurare serenità e benessere ad entrambi. ANCHE QUESTA È COMUNICAZIONE! Una comunicazione di affetti, di fiducia, di emozioni e sentimenti sempre unici, ed ancor più lo sono per un ammalato di P. il quale, suo malgrado, fa esperienza di una malattia certamente fastidiosa e dolorosa, ma non può né deve condizionare la propria vita al punto da rinunciare a quelle gioie che, come nell’esempio, solo il sorriso di un bimbo può donarti. Un parkinsoniano sa quando fermarsi, ma finché potrà, anche se tutto curvo come un “dondolo”, può dare molto e ricevere altrettanto, da un bimbo che non gli chiede perché è tutto curvo e trema. Lui non sa, non può comprendere perché il nonno “trema”, gli basta semplicemente giocare per crescere e farsi avvolgere dalle coccole di un nonno speciale. Solo verso i 4 anni, fase dei perché, i bambini cominciano ad osservare e fare domande. Gli bastano semplici risposte, non c’è bisogno di dare spiegazioni dettagliate. Riporto il caso di un insegnante che si era abbassata, come è suo solito fare, piegandosi sulle ginocchia per essere vis-à- vis con il suo piccolo interlocutore, quando la gamba ha cominciato a tremare. Alla richiesta del bambino perché le tremasse la gamba l’insegnante gli ha risposto: “Già, la gamba trema! Credo proprio che sia messa in una posizione scomoda. Adesso cambio…non trema più!”. L’insegnante ha adottato una piccola strategia che ben conoscono gli ammalati di P. e per il bambino è stata più che sufficiente la risposta ricevuta. Non occorre anticipare la curiosità dei piccoli di conoscere, di capire. C’è tempo per capire che cos’è il Parkinson, d’altronde sono in molti, tra gli adulti, a non conoscere questa malattia e a confonderla con qualcosa legata a problemi di natura psichiatrica. La Neurologia non è la Psichiatria e il P. è solo e semplicemente una brutta malattia che ti colpisce nella sfera del movimento, limitandoti in quelle attività che prima facevi tranquillamente e con tempi “accelerati” rispetto a quelli “rallentati e più distesi” caratterizzanti la malattia. Ciò che chiede un parkinsoniano è solo di essere compreso e rispettato per questa lentezza e rigidità nei movimenti che possono colpire anche nella mimica facciale con un parlare affaticato e un po’ biascicato. Ecco, il tempo è qualcosa che non ci appartiene più; non si conosce più la fretta e la frenesia di un mondo che spreca parole senza riuscire a comunicare alcunché. I suoni di tante inutili parole si sovrappongono, creano una fitta ed impenetrabile nuvola fatta di “rumore” e di vuoto di comunicazione. Un parkinsoniano impara, nel corso della malattia, a “dire” l’essenziale. Siamo semplicemente ammalati di Parkinson. Per piacere rispettateci e rispettate i nostri tempi.
Rossana (Novembre 2013)
Nella cornice autunnale di domenica scorsa, cosa c’è di più bello di una giornata di ottobre, un sole tiepido che filtra tra i rami dei grandi alberi del bosco di Forte Marghera con tutte le sue costruzioni rimaste a testimoniare una pagina della nostra storia? E proprio in una di queste costruzioni restaurate si proietta un docu-film: “Un volto del tango”. Dopo una visita allo stand dedicato al tango ed altre discipline, inerenti alla manifestazione “Venezia in salute” arriva l’ora della proiezione. I due interpreti principali, dott. Michele appassionato insegnante di Tango Argentino e il nostro Giampietro, chiamano a raccolta il pubblico che risponde numeroso. La proiezione scorre con belle immagini naturali e disciplinate dei componenti della Scuola di Ballo Argentino, parkinsoniani e non, il tutto per dimostrare la passione, la sensualità e la fierezza di questo ballo. Noi persone affette da Parkinson ne troviamo giovamento nella postura e nell’equilibrio coin i vari cambi passo, la sensibilità di capire in quale postura si trova il partner, l’abbraccio e il gestire da parte del ballerino le sequenze come “l’occhio”, la “morbida”, i “giri” ecc. Tutto questo ben rappresentato nel varie scene del docu-film. Vorremmo sottolineare che è un gruppo non di soli associati parkinsoniani ma un gruppo consolidato nel tempo di amici, accomunati tutti dalla voglia di passare assieme del tempo acquisendo sempre più proprietà nel ballo. Grazie ai nostri maestri di tango Michele e Mara che tanto si prodigano per il nostro benessere condividendo con noi il tempo e le esperienze. Grazie cari maestri per quanta disposizione d’animo dedicate a noi. Grazie per l’allegria contagiosa che sapete infonderci. Ora non ci resta che tuffarci tutti in un bel tango appassionato o in una divertente milonga.
Paolo e Anna (novembre 2013)
L’esperienza di malattia è complessa, profonda e fa sperimentare una solitudine che ci spaventa. Il momento della diagnosi rappresenta un terremoto nella vita di una persona, si crea un “prima” e un “dopo”. Ci si sente diversi, si cambia, spesso capita di non sentirsi capiti. Ci si sente addosso tutto il peso delle problematiche legate alla malattia: l’angoscia, la paura, la solitudine. Condividere con altri l’esperienza della malattia è fondamentale, si intrecciano fragilità ma anche potenzialità. Si impara a gestire la propria sofferenza, ad accettare e ad elaborare la rabbia, la paura, la sensazione di precarietà ed impotenza. Insomma è giusto confrontarsi, dialogare, uscire da casa e dal nostro guscio di dolore, di paura. C’è però, secondo me, una solitudine che dobbiamo coltivare e che non è rifiuto, isolamento, ma crescita, cambiamento interiore. E’ possibile utilizzare la malattia per stare più a contatto con noi stessi, farla diventare una opportunità per scoprire le nostre risorse più profonde “perché per ritrovarsi bisogna prima perdersi” come diceva uno psicanalista. Solitudine quindi come “luogo ideale” da cui trarre linfa per una vita più nostra, per liberarci da vincoli, condizionamenti, per ascoltarci, per sentire quali sono i nostri veri bisogni, le nostre priorità. La solitudine cosi intesa può diventare un modo per riconciliarsi con se stessi e con la vita, può farci capire quale sia la propria strada e quindi aiutarci a riprogettarsi, a trasformare i limiti in risorse, a renderci più autonomi ed indipendenti. Aprirci non solo agli altri ma anche a noi stessi è un modo per trovare serenità ed equilibrio interiore.
(Dicembre 2013)
Puoi essere in mezzo a 1000 persone e sentirti solo
L’esperienza di malattia è complessa, profonda e fa sperimentare una solitudine che ci spaventa. La solitudine, l’ho provata in alcuni momenti della mia vita . All’inizio della malattia, quando andavo alle visite dai medici e mio marito non veniva perché rifiutava che fra virgolette, la moglie potesse star male, mi sentivo sola, abbiamo sempre fatto tutto insieme perciò era una cosa che mi pesava. In alcuni momenti della mia vita ho provato questo sentimento sia fisicamente che psicologicamente . che credo sia la cosa peggiore. Quando avevo le crisi di discinesie , ero sola con me stessa e mi ripetevo :”posso farcela, ce la devo fare” , e andavo avanti, ero sola con me stessa con le mie forze, anche se accanto avevo le persone che amavo. Un momento che non dimenticherò fu quello dove solitudine e paura andarono a braccetto, andò così: ero a Grenoble per l’intervento di DBS, che era suddiviso in 3 fasi .Al risveglio della prima mi trovai in una camera dove ci saranno stati 30 letti ed erano tutte persone che si dovevano svegliare dopo un intervento . Io tra il dormi veglia chiamavo ma la voce non mi usciva e per pochi attimi mi sono sentita sola, una solitudine grande , NON SENTIVANO, e la paura fece capolino, ma la sensazione più forte era la solitudine ero sola e dovevo reagire, provai e riprovai finché un medico si accorse dei miei gesti . Credo che la cosa migliore sia parlare, parlare, parlare , comunicare con le persone dicendo che ti senti solo , perché anche solo la vicinanza degli altri può essere sufficiente a migliorare la situazione La solitudine può essere un sentimento positivo, alle volte si ha bisogno di restare soli per assaporare una bella cosa che ci capita o che vediamo, o semplicemente per pensare. Per chiudere ho trovato una poesia, che ben interpreta il sentimento ,e che vorrei condividere con voi .
SOLITUDINE E AMORE
Solitudine e amore sono reciprocamente dipendenti,nell’amore la solitudine diventa libertà, e dalla solitudine l’amore trae vigore e profondità.
Marisa Pagotto (dicembre 2013)
(testo integrale del mio intervento a Palazzo Chigi, in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità, comprensivo di ciò che non sono riuscito a dire per ragioni di tempo)
La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con una specifica norma, impone una profonda revisione della normativa e una riorganizzazione dei servizi e delle politiche a partire dalla stessa definizione di “persona con disabilità”. È un’istanza recepita dal Programma di azione biennale per la disabilità emanato con DPR già nel 2013. Non è sufficiente modificare il linguaggio (handicap con disabilità), ma è piuttosto indispensabile ricondurre la valutazione della disabilità (persona, interazione, ambiente) alle finalità della Convenzione: l’individuazione della disabilità è funzionale alla promozione dei diritti umani, all’inclusione, alla modificazione dell’ambiente, al contrasto alla discriminazione, all’impoverimento, alla segregazione. E qui avrei finito la mia relazione. Le persone con disabilità – molto più degli “addetti ai lavori” – hanno crescente consapevolezza di cosa significhi essere “accertati”. Ma è altrettanto chiaro agli “addetti ai lavori” quale sia il costo economico, l’impatto organizzativo, le ricadute effettive di quello che possiamo – un po’ pomposamente – chiamare “sistema di accertamento”?
Disabile, invalido, handicappato, handicappato grave e/o gravissimo, non autosufficiente, gravemente non autosufficiente, persona con ridotte o impedite capacità motorie, persona con grave limitazione alla capacità di deambulazione, oligofrenico, irregolare psichico, persona a responsività limitata … potrei proseguire con il florilegio di definizioni tutte presenti, vigenti e cogenti in una normativa che baldanzosamente consideriamo la più avanzata del mondo ma che ben poco risponde ai crismi della buona regolazione. Dietro la terminologia e il linguaggio, assai poco coerenti nel tempo e nei contesti, c’è sempre un beneficio, una provvidenza, un’agevolazione, l’accesso ad un servizio che per essere ottenuti richiedono uno “status”, uno specifico iter, un accertamento e un “soggetto preposto”, che solitamente è un medico o una commissione prevalentemente sanitaria. Inoltre, per l’accesso al sistema di servizi e prestazioni, in Italia, non è quasi mai sufficiente la verbalizzazione di uno “stato invalidante”, ma sono richiesti anche altri requisiti: ora di età, ora di limiti reddituali, ora di altro tipo soggettivo o materiale. All’accertamento sanitario si aggiunge, quindi, anche quello più schiettamente amministrativo. Esiste in Italia una proliferazione di momenti accertativi derivante proprio da questa frastagliata regolazione che ben poco ha a che vedere con i diritti umani e sociali. Ma quanto ci costa tutto ciò? E: ha ancora senso? Una persona con una minorazione – fisica, sensoriale o intellettiva che sia – che intenda ottenere lo status di invalido o persona con handicap (legge 104/1992) viene sottoposta a visita presso una Commissione. Questa commissione ASL è composta da 5 medici (uno INPS). Integrata con un operatore sociale e uno specialista nel caso si debba valutare l’handicap. Totale 7 operatori. Nella quasi totalità delle Regioni i medici – prevalentemente in servizio nel SSN – percepiscono un gettone. In pochissime altre realtà l’attività fa parte della normate attività di servizio. Una volta conclusa la visita il verbale di invalidità o di handicap viene trasmesso all’INPS dove un’altra commissione (altri 6 operatori) effettuano la verifica agli atti e se del caso convocano nuovamente la persona. Questo iter comporta ovviamente il coinvolgimento dei servizi amministrativi di ASL e di INPS. Una stima molto prudenziale del costo di ciascuna visita è di 250 euro. Sembra poco ma vediamo le consistenze globali. In Italia è stimata la presenza di 250.000 persone con malattia di Parkison. A causa delle specificità della patologia queste persone, nell’arco della loro vita, vengono “accertate” mediamente 4 volte (peraltro con modalità valutative assai disomogenee). Totale 1 milione di visite. 250 milioni di euro per i soli parkinsoniani. Passiamo ai dati reali e testimoniati. L’ultimo Bilancio sociale di INPS ha registrato nel 2013 circa 1.350.000 domande di accertamento (ciascuna domanda spesso contiene richieste per diversi benefici). Significa altrettante visite. Costo stimato per il sistema: 337,5 milioni di euro annui variamente distribuiti fra Stato, INPS e Regioni. Sono esclusi dal conteggio i costi a carico del cittadino e gli oneri amministrativi che subisce. Dal 2011 l’intero sistema è informatizzato e telematizzato grazie al supporto tecnico di INPS. In realtà ciò – per espressa affermazione della Corte dei Conti (determina 101/2013) – non ha prodotto grandi benefici per il cittadino. Nel 2011 fra la presentazione della domanda di accertamento e l’erogazione delle provvidenze economiche trascorrevano in media di 278 giorni per l’invalidità civile, 325 giorni per la cecità civile e 344 giorni per la sordità (Fonte: Corte dei Conti, Determinazione 91/2012, pagina 66). Nel 2012 (ultimo dato utile) i tempi si sono ulteriormente dilazionati: 299 giorni per l’invalidità, 338 per la cecità, 399 giorni per la sordità (Fonte: Corte dei Conti, Determinazione 101/2013, pagina 59). Siccome le prestazioni ricorrono dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda, dopo 120 giorni iniziano “a correre” pure gli interessi passivi. Nel 2012 INPS ha pagato interessi passivi per 64,3 milioni di euro. Il 66,3% di quella cifra riguarda le provvidenze agli invalidi civili pagate in ritardo: 42,6 milioni annui (Fonte: Corte dei Conti, Determinazione 101/2013, pagina 54). Non è tutto. Il sistema tabellare adottato per soppesare l’invalidità e l’incertezza valutativa attorno ai concetti di “atti quotidiani della vita” e di “handicap con connotazione di gravità” producono un contenzioso di mole enorme. Due dati dalla Corte dei Conti: nel 2012 c’erano 283.823 cause civili giacenti. Nel corso dello stesso anno sono state avviate 110.583 azioni civili (Fonte: Corte dei Conti, Determinazione 101/2013, pagina 82). Cause che INPS perde quasi nella metà dei casi. In ogni causa o in ogni accertamento tecnico preventivo sono coinvolti: il legale del cittadino, il legale dell’INPS, i due periti di parte, il consulente tecnico di ufficio del tribunale. Una stima prudenziale media dei costi di ciascuna azione, senza considerare l’impegno del giudice e del tribunale, è di 1.500. Riferendosi alle sole nuove azioni presentate nel 2012 la stima del “giro di affari” è di 165.9 milioni di euro annui.
Tutte queste riflessioni riguardano ovviamente il regime normale del sistema, cioè gli accertamenti ordinari. Non quelli di verifica straordinaria affidati a INPS con la gigantesca campagna di controllo sui “falsi invalidi”, azione che ha prodotto più stigma e spesa che risultati concreti. Oggi lo sappiamo grazie e specifiche interrogazioni parlamentari. Dal 2009 al 2013 sono state effettuate dall’INPS 854.192 verifiche straordinarie. Sono state revocate, per mancata conferma dei requisiti sanitari o assenza a visita medico legale, 67.225 provvidenze. Il che corrisponde al 7,9 per cento delle verifiche al lordo di quanto sarebbe comunque avvenuto per via ordinaria (INPS ha incluso nelle verifiche persone per le quali comunque era prevista una revisione). Quanto stima di aver ricavato l’INPS da questa gigantesca operazione di controllo? Lo dice la risposta all’interrogazione: 352,7 milioni di euro. Lordi, molto lordi. Infatti, per affrontare questa straordinaria mole di lavoro l’INPS è dovuto ricorrere anche a medici esterni: la spesa dichiarata dal 2009 al 2012 è di 101,2 milioni di euro. Il risparmio è quindi di 251,4 milioni. Ancora lordi, ma che rappresentano un risparmio dell’1,51 per cento della spesa annua per le provvidenze agli invalidi civili (16,6 miliardi secondo il bilancio sociale INPS, un miliardo e mezzo in meno secondo l’ISTAT). Da questo “bottino”, vanno poi detratte le spese per il personale interno (che INPS non dichiara): altri medici, dirigenti, softwaristi, impiegati amministrativi, spese di struttura, spese di spedizione di 850.000 comunicazioni. Stima prudenziale: altri 70 milioni. Il risparmio scende a 181,4 milioni. Non è finita. Come correttamente ricorda la risposta in un’interrogazione in Commissione Affari Sociali, il risparmio va inteso al lordo del contenzioso. Tradotto: chi si vede revocare la pensione o l’indennità fa ricorso. Nel 45% dei casi l’INPS soccombe in giudizio ed è obbligato a restituire, con gli interessi, il “maltolto” pagandoci pure le spese legali. Molto prudenzialmente è da ritenere che l’INPS (che oltretutto si serve in larga misura di legali esterni, come “lagnato” dalla Corte dei Conti) perda in questa operazione almeno altri 70 milioni. Il risparmio scende a 111,4 milioni (non annui, ma complessivi dell’intera campagna). Questa cifra ridicola rappresenta lo 0,67 per cento della spesa annuale per pensioni e indennità. Ricordo lo stigma di un paio di anni fa: un invalido su quattro è falso. Come si vede l’intero sistema – quello ordinario e quello straordinario – è estremamente costoso per lo Stato, per l’INPS e per le Regioni. Lo è anche per il cittadino, ovviamente. C’è qualcosa che non va in termini di efficacia ed efficienza nel sistema. Dagli ultimi dati ISTAT disponibili sull’invalidità civile risulta che almeno il 58% degli invalidi civili ha più di 65 anni. Almeno il 41% ne ha più di 80. Ragioniamo su quest’ultima cifra. Ci stiamo riferendo – con tutta probabilità – a persone con affezioni tipiche della terza età, con esigenze e peculiarità specifiche ma abbastanza agevolmente definibili. Ha senso che la loro valutazione rientri nel circuito ordinario? 7 medici in Commissione ASL, 6 in Commissione INPS che giungono alla conclusione che esistono o meno i presupposti per la concessione dell’indennità di accompagnamento? Non ha senso ipotizzare un percorso più rapido, meno costoso e legato ai servizi territoriali? Ricordo che l’accertamento dell’invalidità poco conta per l’accesso ai servizi, ad esempio, residenziali. Nella quasi totalità delle regioni la valutazione della non autosufficienza è poi affidata alle Unità di valutazione multidisciplinare. Quindi, ancora una volta, raddoppio dei costi. E stiamo parlando almeno del 40% delle visite di invalidità… Ma moltiplicazioni dei momenti valutativi si riscontrano in modo ancora più evidente nell’ambito del diritto allo studio. Per la definizione di diagnosi funzionali e profili dinamico funzionali il precedente accertamento di invalidità è del tutto inutilizzabili. Se valutiamo il sistema nel senso dell’efficacia e dell’efficienza, prima ancora della scientificità o dei diritti umani, ne traiamo delle conclusioni davvero desolanti. Qual è il “prodotto” alla fine del percorso attuale di accertamento?
Nulla descrive in funzione di costruzione di servizi personalizzati, piani educativi, progetti individuali, cioè in funzione delle reali esigenze, aspettative, potenzialità dei singoli e della descrizione del contesto. Ridisegnare il sistema ponendo al centro i diritti sociali ed umani può rappresentare l’occasione di una intelligente spending review oltre che un lungimirante investimento sulle persone e sulla loro reale inclusione.
È possibile già oggi, un pezzo per volta, ma con decisione. Agendo anche in piccolo, ma pensando in grande.
Fonte: Carlo Giacobini (03.12.2014)
Una gita all’Ulss …..
Il 15 gennaio 2014 mi sono recata assieme a mio marito (cargiver d’eccezione) all’ Ulss di Mestre -Venezia per essere sottoposta alla prevista e sospirata (richiesta dal maggio 2013) prima visita per accertamento dell’invalidità civile e della certificazione ai sensi della Legge 104/95. Dopo la procedura iniziale molto veloce, ci siamo accomodati all’interno dell’Ufficio destinato alla commissione prevista. La prima sorpresa di smarrimento è stata quella di essermi documentata riguardo il numero dei componenti della stessa…probabilmente ho letto male, in quanto ero sicura che il numero dei componenti fosse 5, ed invece ci siamo ritrovati ad interagire con un individuo, non meglio identificato ( un ufo dell’ Ulss) in quanto privo della prevista targhetta riportante il cognome e l’incarico. Lui quando siamo entrati stava con aria annoiata mischiando la documentazione da me prodotta e diligentemente separata per patologia e divisa in apposite cartelline. Dopo un misero saluto di accoglienza, l’individuo mi ha posto un coacervo di specifiche e profonde domande sulle mie patologie del tipo: lei signora ci vede bene? come va con questo parkinson? lei lavora?e dulcis infondo…ma lei è sempre stata così robusta? che dire??????
Non so, non ne sono a conoscenza, se questa è in generale la tipologia classica di una visita di questo tipo, so invece che ho vissuto, prima di convincermi di effettuarla, un profondo travaglio interiore relativo all’eventuale riconoscimento di tali patologie, e di conseguenza di entrare a far parte del mondo della disabilità/handicap. Direi quasi una sorta di colpa nei riguardi di altre persone con problematiche superiori alla mia, quindi pensavo che la valutazione, vista l’importanza della materia trattata, richiedesse una professionalità, serietà, specializzazione e sensibilità totalmente diversa affinché la dignità mia di malata fosse preservata. Questo pensiero mi ha assillato fino a che, consultando il sito dell’INPS, ho deciso di chiedere delucidazioni in merito, e qui siamo veramente alla farsa…., Monica, del call center dell’INPS, con il suo linguaggio impostato e sopratutto molto professionale, alla mia specifica domanda del perché avessi trovato solo un componente della commissione, anziché 5, quasi stizzita rispondeva” ma signora non è vero che deve essere composta da 5 elementi, ma dove l’ha letto?” molto probabilmente c’era talmente tanta gente che hanno “preferito” sdoppiare la commissione piuttosto che mandarvi a casa…..”e chiedendo come potevo sapere chi fosse la persona che mi aveva a così amorevolmente “visitata” lei rispondeva che la targhetta identificativa forse l’aveva “parcheggiata” sotto qualche pratica e che comunque all’arrivo del verbale leggerò tutti i nominativi della commissione….!(molto probabilmente non avrò dubbio sull’identità, uno era e uno dovrebbe firmare.).
Dopo queste risposte, io mi sono sentita su scherzi a parte, e francamente non ho avuto il coraggio di chiedere la motivazione delle altre domande perché ho temuto l’eventuale tipo di risposte…Cose del genere devono farci riflettere, alla luce di quanto sta succedendo nei riguardi del nostro mondo, I componenti della commissione (Monica vatti a leggere le normative), sono cinque, proprio per il motivo di assicurare una completezza e la verifica dello stato dell’individuo; altro aspetto inquietante è il fatto dell’enorme spesa effettuata dall’INPS per i controlli periodici relativi alle situazioni già riconosciute. Gli stessi, potrebbero essere impiegati per l’assunzione di altri medici al fine di avere delle commissioni serie ed omogenee. infine volevo esprimere il mio disappunto per come sono stata trattata, la mia dignità di persona e di malata ha subito un duro colpo per quanto riguarda l’aspetto umano, profondamente offeso e calpestato, inizialmente da una procedura falsa, e successivamente, al telefono, da una ignoranza degno biglietto da visita dell’Istituto che rappresenta. Questo post l’ho scritto sostenuta da Gianfranco.
Paula Zoppellari (Gennaio 2014)