Sono più numerosi gli uomini, ad essere colpiti dalla malattia di Parkinson, ma i movimenti involontari tipici di questa patologia degenerativa sono tre volte più frequenti nelle donne, così come, per queste ultime, sono più gravi le ricadute sociali. Lo scopriamo in questa approfondita scheda, che prende spunto da un recente convegno tenutosi a Milano, positivo segnale – finalmente! – di una maggiore attenzione alle differenze di genere nel manifestarsi delle varie malattie.
La malattia di Parkinson colpisce uomini e donne in maniera diversa: gli uomini, infatti, sono più numerosi del 50%, mentre è tre volte più frequente tra le donne la comparsa di quei movimenti involontari che costituiscono gli effetti indesiderati del farmaco più usato per tenere sotto controllo i sintomi tipici della malattia, la Levodopa.
Rispetto poi alla progressione della malattia, anche qui ci sono importanti differenze: nei maschi, infatti, a farne le spese sono soprattutto le capacità di comprensione e di ragionamento, mentre nel genere femminile sono più frequenti ansia e depressione. Per le donne, inoltre, sono più gravi le ricadute sociali: oltre infatti alla compromissione della propria capacità lavorativa, esse perdono anche il ruolo all’interno della famiglia.
Proprio alla malattia di Parkinson e alle parità tra uomo e donna nella buona salute e nella cura, l’Istituto Neurologico Besta di Milano e la Regione Lombardia hanno dedicato il 5 marzo il convegno intitolato Tutta cuore e cervello – Parkinson: le donne non tremano.
Si è trattato del sesto appuntamento di un ciclo di incontri che vede l’Istituto Besta – tramite il CUG (Comitato Unico di Garanzia) per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio – promuovere azioni formative sulla medicina di genere, organizzando ogni anno un evento su una patologia neurologica in cui vengono affrontati sia gli aspetti medico-scientifici che quelli sociali.
Spiega Barbara Garavaglia, responsabile del CUG e direttore dell’Unità di Neurogenetica Molecolare dell’Istituto Besta: «La maggiore frequenza degli effetti collaterali dei farmaci è una conseguenza del limitato numero di donne coinvolte nella sperimentazione clinica delle nuove terapie, che porta a non conoscere tutte le conseguenze dell’uso dei farmaci in entrambi i sessi. Le terapie agiscono in maniera diversa sulle donne perché hanno un peso corporeo inferiore e quindi nel loro organismo i princìpi attivi sono più concentrati e hanno di conseguenza effetti superiori, talvolta indesiderati».
A sottolineare quanto sia attuale il problema, è la presidente di Parkinson Italia, Lucilla Bossi, intervenuta al Convegno con una sua relazione, che ha raccontato un fatto particolare, accaduto proprio durante quello stesso convegno: «Si è trattato di un evento ben fatto e molto utile, in un Paese, il nostro, in cui il tema del genere è ancora poco sentito e ancora estraneo alla nostra cultura. Basti pensare che uno dei relatori, guarda caso di sesso maschile, ha presentato e commentato una serie di diapositive – sforando anche sui tempi – nella quale il tema del “genere” non era neanche lontanamente trattato. Io questa la chiamo mancanza di rispetto per il pubblico in generale e per i pazienti in particolare. Mancanza di rispetto e maleducazione. E credo di essere arrivata al limite della sopportazione, come paziente, come presidente e come persona».
Le differenze della malattia tra i generi
Le donne, dunque, si ammalano di Parkinson in misura inferiore rispetto agli uomini, anche se con problematiche più gravi. Vi è differenza, inoltre, nell’età in cui compare la malattia: nel genere femminile vi è un esordio ritardato in media di circa due anni, con un’età media di 66 anni per gli uomini a fronte di 68 anni per le donne.
La maggiore resistenza del genere femminile è dovuta alla funzione protettiva che gli ormoni femminili, gli estrogeni, esercitano contro l’insorgenza e la progressione della malattia. Questi ormoni, infatti, prevengono la distruzione dei neuroni che producono la dopamina, sostanza che presiede al controllo dei movimenti del corpo. Queste cellule sono il principale bersaglio delle neurotossine che causano la malattia di Parkinson. Si stima che una maggiore esposizione agli estrogeni – sia naturali, sia dovuti alle terapie ormonali – riduca il rischio di Parkinson di circa il 43%.
Inoltre, la stimolazione cerebrale profonda (DBS, cioè l’impianto – direttamente nel cervello – di piccoli elettrodi, con la riduzione di alcuni sintomi e un miglioramento delle capacità nelle azioni quotidiane) ha una maggiore efficacia sulle donne.
Parkinson: origine e caratteristiche
Anche se non è stata ancora accertata scientificamente la causa, si pensa che il Parkinson sia una patologia che deriva da fattori sia ambientali (stili di vita, inquinamento, alimentazione, infezioni ecc.), sia genetici. Si è recentemente osservato, infatti, che il 10-20% dei pazienti ha più di un caso nella propria famiglia e che quindi vi è un coinvolgimento di fattori ereditari nell’insorgere della malattia.
In Francia, per altro, già da due anni il Parkinson è riconosciuto come malattia professionale degli agricoltori, notoriamente più esposti degli altri ai pesticidi.
Trial clinici
I farmaci vengono sperimentati prevalentemente sugli uomini e per tale ragione non sempre sono adatti alle donne. La scelta di non arruolare le donne è stata presa in passato per ragioni etiche, per timore di una gravidanza durante la sperimentazione. Un caso eclatante sono stati gli oltre 12.000 bambini nati focomelici all’inizio degli Anni Sessanta, a causa del talidomide, un farmaco antiemetico usato anche nelle donne in gravidanza.
Vi sono però anche ragioni economiche, in quanto le donne non sono una categoria omogenea – in considerazione della variabilità ormonale che caratterizza la loro vita – e questa variabilità aumenta il numero dei campioni e prolunga la ricerca aumentandone i costi.
La mancanza di una sperimentazione clinica sufficientemente approfondita nelle donne porta al fatto che il numero delle reazioni avverse ai farmaci nella fascia di età 35-44 anni è quasi doppio nel genere femminile.
Alcuni casi di “dispari” sperimentazioni
Tra gli Anni Settanta e Ottanta, per proteggere la donna e il nascituro, la Food and Drug Administration statunitense ha escluso le donne dagli studi clinici di fase III [la fase più avanzata di una sperimentazione, N.d.R.], tra cui una sperimentazione sugli effetti dell’aspirina sulle malattie cardiovascolari in cui furono arruolati 22.071 uomini e nessuna donna (Final Report on the Aspirin Component of the Ongoing Physicians’ Health Study, in «The New England Journal of Medicine», 1989, 321:129-135).
Anche nel Multiple Risk Factor Intervention Trial(MRFIT), condotto tra il 1973 e il 1982 per valutare le correlazioni tra pressione arteriosa, fumo, colesterolo e malattie coronariche, non fu coinvolta nessuna donna a fronte di 12.866 uomini.
E ancora, nel Longitudinal Study sull’invecchiamento del National Institute on Aging di Baltimore (1958-1975) le donne erano escluse, nonostante costituissero i due terzi della popolazione con più di 65 anni.
Infine, il primo studio (1984) sul ruolo degli estrogeni come possibile trattamento nella prevenzione delle malattie cardiache fu condotto esclusivamente su uomini, con gravi conseguenze in termini di tumori e femminilizzazione.
Le differenze tra uomo e donna
L’organismo maschile e quello femminile rispondono in maniera diversa ai farmaci a causa delle diversità fisiologiche e anatomiche: le donne hanno un minore peso corporeo, una maggiore massa grassa e in generale hanno più difficoltà nell’assorbimento gastrico dei farmaci.
Spesso, poi, i sintomi di una malattia possono essere diversi tra uomo e donna. Un esempio tipico è quello dell’infarto del miocardio che nella donna non si presenta quasi mai con il “classico” dolore toracico che i testi medici riportano, ma con disturbi simil-influenzali: astenia profonda, nausea, a volte vomito, sudorazione profusa e un dolore più frequentemente dorsale, irradiato alle braccia e al collo. Ma queste differenze non sono così note e quindi l’infarto nella donna non viene subito riconosciuto, anche se uno studio condotto negli Stati Uniti ha dimostrato che tra il 1979 e il 2000 la mortalità delle donne per patologie cardiovascolari ha superato quella degli uomini.
Fonte: curato in origine dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Neurologico Besta di Milano, in seguito accuratamente revisionato e in parte modificato da Parkinson Italia (Confederazione Associazioni Italiane Parkinson e Parkinsonismi), 10 marzo 2015